IL CIBO SACRO E PROFANO

di RENATO DEL PONTE.

Estrat­to da “Roma Amor”.
Edi­zio­ni Arŷa Geno­va 2022.

Il cibo, ani­ma­le e vege­ta­le, ha dupli­ce valen­za: nutre gli uomi­ni, ma occor­re anche agli dèi, che l’accettano in offer­ta dagli uomi­ni come rico­no­sci­men­to del­la loro supe­rio­ri­tà, garan­zia del­la loro pro­te­zio­ne e a sug­gel­lo del pat­to sta­bi­li­to ira loro e i fon­da­to­ri dell’urbe.

L’OFFERTA E LA SPARTIZIONE DELLE CARNI

Una pri­ma, gene­ra­le distin­zio­ne dell’animale desti­na­to al sacri­fi­cio con­cer­ne le fina­li­tà per le qua­li que­sto vie­ne sacri­fi­ca­to. Nel De Reli­gio­ni­bus il giu­ri­sta C. Tre­ba­zio Testa inse­gna che “due sono i gene­ri di vit­ti­me, uno in cui si ricer­ca la volon­tà del Dio per mez­zo degli exta (“inte­rio­ra”), l’altro in cui si con­sa­cra al Dio la sola ani­ma (“essen­za vita­le”), per cui anche gli aru­spi­ci chia­ma­no que­ste vit­ti­me “ani­ma­li”” (cit. in Macro­bio, Sat., 3,5, l ).

La spar­ti­zio­ne del cor­po, arti­co­la­ta sul­la distin­zio­ne fra i cin­que exta offer­ti agli dèi (fega­to, fie­le, pol­mo­ne, mem­bra­na inte­sti­na­le e cuo­re) e le visce­ra, con­su­ma­ti suc­ces­si­va­men­te dagli offe­ren­ti, occu­pa mol­to tem­po ed è rifles­sa sul Kalen­da­rium dai dies endo­ter­ci­si (en), allor­ché è nefas pro­ce­de­re ad atti­vi­tà lega­li mane ei vespe­ri, men­tre è fas nel­la fase inter­me­dia. Col che si assi­ste ad un pro­ces­so di tra­sfor­ma­zio­ne che fa sì che l’animale, già tra­sfe­ri­to con l’immo­la­tio nel­la sfe­ra del sacro. Sia posto nel­la con­di­zio­ne di dare indi­ca­zio­ni sci la volon­tà divi­na. Sene­ca affer­ma che pecu­dum visce­ra sub iosa secu­ri for­man­tur ( Nat. Q. 2, 32, 4). Cioè i segni auspi­ca­li sor­go­no sot­to il col­tel­lo che inci­de le car­ni: il rito sacri­fi­ca­le inci­de dun­que sul­la modi­fi­ca­zio­ne del­la real­tà. Dopo l’immo­la­tio, che tra­sfe­ri­sce l’animale dall’ambito pro­fa­no a quel­lo sacro dal­le cui car­ni usci­ran­no solo al momen­to del­la pro­fa­na­tio, quan­do ver­ran­no distri­bui­te per l’epu­lum o ban­chet­to agli offe­ren­ti, e gli altri gesti ritua­li come l’aspersione con il vino, si pro­ce­de all’uc­ci­sio­ne dell’animale con la scu­re (se bovi­no o equi­no) o col col­tel­lo (se sui­no o ovi­no). Il col­po leta­le talo­ra avvie­ne dal­la par­te bas­sa dell’animale o da quel­la alta, a secon­da che si trat­ti di offer­ta a divi­ni­tà infe­re o sùpere.

Oltre agli exta, agli dèi si può anche offri­re il mag­men­tum o aug­men­tum, cioè par­ti rap­pre­sen­ta­te del­la tota­li­tà del cor­po dell’animale, con una sele­zio­ne minu­zio­sa­men­te elen­ca­ta dal­le nor­me del dirit­to pontificale.

Si può affer­ma­re che il rito del­la spar­ti­zio­ne del­le car­ni nel sacri­fi­cio ha un’analogia con la sud­di­vi­sio­ne del tem­plum nel cie­lo da par­te dell’augure. In entram­bi i casi la divi­sio­ne vie­ne inte­sa come una lot­ta con­tro la uni­for­mi­tà indi­stin­ta ed ano­ni­ma del­lo spa­zio, per l’in­di­vi­dua­zio­ne di riti vita­li e significanti.

IL CEREALE DELLE ORIGINI: IL FARRO SUO USO PROFANO

Ma non mino­re impor­tan­za rive­ste per i roma­ni l’elemento vege­ta­le. I pri­mi inse­dia­men­ti lazia­li del­la media età del Bron­zo (XIV sec. a.C.) atte­sta­no la col­ti­va­zio­ne dell’orzo, del miglio e di alcu­ne spe­cie infe­rio­ri di fru­men­to, fra cui (dal XIII seco­lo) il tri­ti­cum dicoc­cum, cor­ri­spon­den­te a quel­lo che i Roma­ni chia­me­ran­no far, “far­ro”, e che tan­ta impor­tan­za rive­sti­rà nell’uso ali­men­ta­re e ritua­le del­la loro civil­tà, così che Pli­nio (Nat. Hist. 18, 62) giun­ge­rà a dire che per ben 300 anni a Roma ci si cibò sola­men­te di farro.

La mie­ti­tu­ra avve­ni­va tra giu­gno e luglio, ma, a dif­fe­ren­za degli altri cerea­li, il far­ro non era allo­ra imme­dia­ta­men­te com­me­sti­bi­le. Imma­gaz­zi­na­te le spi­ghe non treb­bia­te, que­ste pote­va­no esse­re tol­te dal depo­si­to solo d’inverno e uti­liz­za­te solo dopo ade­gua­ta tosta­tu­ra e maci­na­tu­ra, secon­do una nor­ma attri­bui­ta a Numa Pom­pi­lio, che isti­tuì l’apposita festa dei For­na­ca­lia il 13 feb­bra­io (pro­ro­ga­bi­le il 17 suc­ces­si­vo ai Quri­na­lia), in cui chic­chi abbru­sto­li­ti veni­va­no offer­ti alla dea For­na­ce. Ma pri­ma di esse­re maci­na­ti in casa o al muli­no, i gra­ni dove­va­no esse­re bat­tu­ti con un appo­si­to pestel­lo (pilum) per fare usci­re i semi dal­le spi­ghe: a ciò pre­sie­de­va il Dio Pilum­nus, che pro­teg­ge anche i lat­tan­ti, con la super­vi­sio­ne di Iup­pi­ter Pistor.

ALCUNE RICETTE

LA PULS

A base di far­ro è la puls, a lun­go con­si­de­ra­ta il piat­to nazio­na­le dei Roma­ni. Dopo aver tosta­to i chic­chi di far­ro in appo­si­to reci­pien­te metal­li­co, nel­la quan­ti­tà desi­de­ra­ta ridur­li a fine gra­nu­la­to fran­tu­man­do­li con un pestel­lo di legno in un mor­ta­io di pie­tra o di mar­mo. Fat­ta bol­li­re dell’acqua per cir­ca 3/4 di litro, ver­sar­vi a ven­ta­glio la fari­na otte­nu­ta aggiun­gen­do sale e mesco­lan­do con­ti­nua­men­te per alme­no mezz’ora. Ver­sa­re quin­di la sor­ta di polen­ta (o den­so mine­stro­ne) che ne è deri­va­ta in un’ampia sco­del­la, con­den­do con fet­te sot­ti­li e abbon­dan­ti di lar­do. Per la festa del­le Car­na­ria (1° giu­gno) si aggiun­ga fari­na di fave novelle.

FOCACCE VARIE

Il panis lau­rea­tus è una focac­cia non lie­vi­ta­ta, impa­sta­ta con acqua, sale, fari­na di far­ro e raschia­tu­ra di foglie di allo­ro. La strues (appar­te­nen­te al gene­re dei liba, soprat­tut­to offer­ti nei dies nata­les al pro­prio Genius) è una focac­cet­ta non lie­vi­ta­ta impa­sta­ta con fari­na di far­ro, olio e mie­le. Si può pre­pa­ra­re a stra­ti una sull’altra, a gui­sa di tra­mez­zi­ni dol­ci. Il fer­tum è una focac­cia non lie­vi­ta­ta impa­sta­ta con sale, fari­na di far­ro, lat­te e fega­to di peco­ra tri­ta­to: con la strues, è sem­pre pre­sen­te nel­la dimo­ra del Fla­mi­ne di Giove.

IL FARRO
USO RITUALE

La mola sal­sa, far­ro misto a sale cot­to e cru­do, era indi­spen­sa­bi­le per ogni sacri­fi­cio cruen­to (immo­la­re signi­fi­ca “cospar­ge­re di mola”), dal momen­to che il sacri­fi­can­te iso­la­va, ren­den­do­lo sacer, l’animale desti­na­to agli dèi col cospar­ger­gli il capo con la mola sal­sa appo­si­ta­men­te pre­pa­ra­ta dal­le vesta­li, con far­ro rac­col­to pre­ma­tu­ra­men­te in appo­si­ti ter­re­ni del col­le­gio, soprat­tut­to usan­do­lo in occa­sio­ne del­le feste dei Luper­ca­lia, Vesta­lia e Iovi epu­lum.

L’uso del far­ro è indi­spen­sa­bi­le per il matri­mo­nio reli­gio­so, det­to appun­to “comu­nio­ne del far­ro” (con­far­rea­tio), cele­bra­to insie­me con gli spo­si dal Pon­te­fi­ce Mas­si­mo e dal Fla­mi­ne di Gio­ve, alla pre­sen­za di die­ci testi­mo­ni: gli spo­si vi con­su­ma­va­no una sem­pli­ce focac­cia non lie­vi­ta­ta, poi offer­ta a Iup­pi­ter Far­reus. È que­sta una unio­ne asso­lu­ta­men­te indis­so­lu­bi­le, nono­stan­te alcu­ni abu­si tal­vol­ta veri­fi­ca­ti­si in epo­ca imperiale.

Ecco qui di segui­to alcu­ne feste del Kalen­da­rium in cui sicu­ra­men­te si offri­va­no diver­si ingre­dien­ti a base di farro.

A Gen­na­io, il pri­mo gior­no del mese ci si scam­bia e si offre a Gia­no lo jan­val, un libum dol­ci­fi­ca­to col miele.

Nei gior­ni seguen­ti duran­te i Com­pi­ta­lia, ai Lari si offro­no sem­pli­ci chic­chi del cerea­le e lo stes­so fan­no i Fra­tel­li Arva­li duran­te le Feriae Semen­ti­vae alla fine del mese.

A Feb­bra­io, oltre ai For­na­ca­lia e Qui­ri­na­lia di cui già si è det­to, nei Dies Paren­ta­les il far­ro in chic­chi o sot­to for­ma di puls o di fari­na non può man­ca­re nel­le offer­te ai defun­ti. In Apri­le van­no liba di far­ro alla dea Cere­re il gior­no 19 (Ceria­lia).

A Giu­gno, il gior­no 9 le Vesta­li reca­no liba di far­ro alla divi­ni­tà patro­na del­la casa e di tut­ta la comu­ni­tà roma­na, men­tre l’11 (Matra­lia) una dele­ga­zio­ne di matro­ne reca i mede­si­mi liba a Mater Matu­ta. È mol­to pro­ba­bi­le che offer­te del gene­re avve­nis­se­ro nel cor­so dei Con­sua­lia del 21 ago­sto e 15 dicem­bre, con­si­de­ra­to il carat­te­re agra­rio del­la festa, che fu isti­tui­ta dal­lo stes­so Romolo.

LE CENE ROMANE

Nono­stan­te le descri­zio­ni del Saty­ri­con di Petro­nio e cer­ti cli­ché dei film hol­ly­woo­dia­ni, per la mag­gior par­te dei Roma­ni il pran­zo che coro­na­va la loro gior­na­ta era una festa discre­ta e pia­ce­vo­le, in cui lo spi­ri­to ave­va la sua par­te come il cor­po e in cui l’osservanza di cer­te nor­me non esclu­de­va la misu­ra e la sem­pli­ci­tà. L’aristocratico Pli­nio il Gio­va­ne (Ep. 1, 15) ci for­ni­sce la lista del­la cena pre­pa­ra­ta per l’amico Sep­ti­cio Cla­ro (il qua­le, però, pre­fe­rì un con­vi­to in cui bal­la­va­no le ragaz­ze di Gades): una lat­tu­ga, tre luma­che, due uova a testa, oli­ve, cipol­le e zuc­che, un pastic­cio di far­ro al mie­le innaf­fia­to di vino e raf­fred­da­to sul­la neve. Non diver­sa­men­te anda­va nel­la pic­co­la borghesia.

Ecco una cena orga­niz­za­ta dal poe­ta Mar­zia­le per set­te con­vi­ta­ti (10, 48):

Le mal­ve sco­la­ti­ve mi ha por­ta­to la con­ta­di­na e ogni gio­ia dell’orto: lat­tu­ghe lar­ghe e por­ri da taglia­re, la men­ta rut­ta­tri­ce e la ruchet­ta, erba che driz­za. Sor­mon­ta­te da fet­te d’uovo acciu­ghi­ne avre­te sul­la ruta e con sal­sa di ton­no una tet­ti­na di tro­ia. Fini­ti gli anti­pa­sti: la mia cena peni­ten­zia­le avrà una sola pie­tan­za, un agnel­li­no strap­pa­to dal­le gana­sce del disu­ma­no lupo, con bra­cio­li­ne che non han biso­gno d’un gen­ti­luo­mo di boc­ca che le trin­ci, fave da mani­scal­chi e broc­co­let­ti fre­schis­si­mi. Come aggiun­te fina­li: un pol­lo, un pro­sciut­to avan­zo di tre pran­zi. poi darò ai vostri sto­ma­chi già pie­ni frut­ti matu­ri e vino defe­ca­to nomen­ta­no che sot­to Fron­ti­no sei anni ha avu­to. Segui­ran­no quin­di scher­zi non melan­co­ni­ci e paro­le ardi­te che non vi faran­no l’indomani tre­ma­re di ter­ro­re o che vor­re­ste aver taciu­to.



Ancor più sem­pli­ce e sim­pa­ti­co il desi­na­re annun­cia­to da Gio­ve­na­le a un suo ami­co (11, 64–76):

Le vivan­de or odi che in mostra non vedrai su alcun mer­ca­to. Ver­rà dal tibur­ti­no agro un capret­to pin­guis­si­mo, il più tene­ro del greg­ge, che l’erba ancor non sa, che non anco­ra mor­se dell’umil sali­ce i vir­gul­ti e più lat­te che san­gue ha nel­le vene: poi mon­ta­ni­ni aspa­ra­gi, rac­col­ti dal­la vil­la­na quan­do lascia il fuso; poi ci sono gros­se uova ancor tepen­ti del loro nido di fie­no, e insie­me le madri; uve per mol­ti mesi con­ser­va­te qua­li era­no sul tral­cio; e poi di Segni pere e di Siria, e nel cestel­lo stes­so mele di recen­tis­si­mo pro­fu­mo, Tali da gareg­giar con le pic­ci­ne.

ALCUNE RICETTE

Per fini­re, pro­po­nia­mo qui alcu­ne ricet­te sug­ge­ri­te da Cato­ne il Cen­so­re nel suo De Agri cul­tu­ra (II sec. a. C.) e dal famo­so gastro­no­mo e cuo­co Api­cio nel suo De re coqui­na­ria (I sec. d.C.)

CATONE: I “GLOBI”

I “glo­bi” si fan­no cosi: mesco­la for­mag­gio e fari­na di far­ro. Poi fan­ne quan­ti “glo­bi” vuoi: met­ti del gras­so in un paio­lo di rame cal­do e cuo­ci­li uno o due alla vol­ta e muo­vi­li spes­so con due baston­ci­ni. Quan­do sono cot­ti, lava­li e cospar­gi­li di mie­le, di semi di papa­ve­ro e met­ti­li in tavola.

CATONE: I “MOSTACCIOLI”

I “mostac­cio­li” si fan­no cosi: ver­sa del mosto su un mog­gio di fari­na di sega­le. Aggiun­gi ani­ci, cumi­no, due lib­bre (= 600 gram­mi) di gras­so, una di for­mag­gio, foglie di allo­ro raschia­te. Dopo che li avrai taglia­ti a fet­te, per cuo­cer­li ci met­te­rai sot­to foglie di lauro.

APICIO: “PIATTO FREDDO DI ASPARAGI”

Pren­di aspa­ra­gi ben puli­ti, tri­ta­li nel mor­ta­io, ver­sa­vi l’acqua, striz­za­li e pas­sa­li allo stac­cio. Met­ti nel tega­me dei bec­ca­fi­chi ben puli­ti. Tri­ta nel mor­ta­io 12 chic­chi di pepe, aggiun­gi la sal­sa e lavo­ra; dopo aggiun­ge­rai una taz­za di vino e una di pas­si­to. Met­ti il tut­to in un tega­me con 90 gram­mi d’olio. Bol­li. Ungi una teglia e in que­sta met­ti­ci sei uova con sal­sa aci­da di vino; insie­me al sugo degli aspa­ra­gi, cuo­ci tut­to nel­la cene­re cal­da insie­me al tri­to det­to pri­ma. Allo­ra aggiun­gi i bec­ca­fi­chi. Cuo­ci cospar­gen­do di pepe e servi.

APICIO: “PIATTO DI ROSE”

Pren­di del­le rose e sfo­glia­le: togli il bian­co dai peta­li che met­te­rai nel mor­ta­io, bagna di sal­sa e lavora.

Dopo aggiun­gi una taz­za e mez­zo di sal­sa e pas­sa il sugo al coli­no. Pren­di quat­tro cer­vel­la sner­va­te e tri­ta­ci 20 chic­chi di pepe. Bagna col sugo e mesco­la. Rom­pi in segui­to otto uova, aggiun­gi una taz­za e mez­zo di vino, una taz­za di pas­si­to, poco olio. Dopo ungi una padel­la e met­ti­la sul­la bra­ce cal­da ver­san­do­ci ciò che si è det­to. Quan­do arri­ve­rà a cot­tu­ra sul­la bra­ce cospar­gi di pol­ve­re di pepe e por­ta in tavola.

APICIO: “CASTAGNE AD USO DI LENTICCHIE”

Pren­di una pen­to­la nuo­va e dili­gen­te­men­te met­ti­ci le casta­gne puli­te; fai in modo che cuo­cia­no. Quan­do saran­no cot­te, met­ti nel mor­ta­io del pepe, del cumi­no, del corian­do­lo, del­la men­ta, del­la ruta, del­la radi­ce di laser, del puleg­gio. Tri­ta tut­to. Bagna con ace­to, aggiun­gi­ci del mie­le, del­la sal­sa; lavo­ra anco­ra con ace­to. Get­ta tut­to sul­le casta­gne cot­te. Aggiun­gi olio. Farai bol­li­re. Quan­do avran­no bol­li­to bene sfa­ri­na come se usas­si il mor­ta­io. Assag­gia. Se non tro­ve­rai qual­che sapo­re aggiun­gi­lo. Quan­do get­te­rai il tut­to nel­la zup­pie­ra, aggiun­gi olio verde.

APICIO: “AGNELLO O CAPRETTO SIRINGATO (SVUOTATO)”

Si disos­si dili­gen­te­men­te dal­la gola in modo che l’animale diven­ti un otre; gli inte­sti­ni usci­ran­no inte­gri e fai in modo che esca­no dal­la testa gon­fia­ti; farai usci­re la stes­sa dall’altra par­te. Lava­lo bene con l’acqua e riem­pi­lo mesco­lan­do la sal­sa; cuci il taglio dal­le spal­le e met­ti­lo in for­no. Quan­do sarà cot­to bagna­lo del suo stes­so sugo mesco­la­to a lat­te bol­len­te e pepe tri­ta­to, sal­sa, vino dol­ce, poco mosto cot­to e così l’olio e men­tre la sal­sa bol­le get­ta­ci l’amido. Si può met­te­re in un sac­co di rete o in una spor­ta e si strin­ga bene e si get­ti in una pen­to­la con poco sale. Quan­do avrà fat­to due o tre bol­lo­ri, leva­lo. Met­ti a bol­li­re di nuo­vo il sugo sud­det­to e ver­sa­ci sopra il con­di­men­to bollente.