POLIFILO E LA MISTICA DELLA RINASCENZA

di ROSANNA PERUZZO

estrat­to da “La Dea vol­ta al maschi­le
2016
Edi­zio­ni Arŷa Genova 

Vedia­mo ora il miste­rio­so signi­fi­ca­to fon­da­men­ta­le e rive­la­ti­vo di que­sti Di Digi­dii. L’altra deno­mi­na­zio­ne fra­tres Depi­dii risul­ta anco­ra, sostan­zial­men­te, oscu­ra. Arno­bio (A.N. 3, 41): “I Digi­dii sono un cal­co del gre­co Dak­ty­loi. Sono cin­que come le dita del­la mano e si lega­no al cul­to dei Cabi­ri di Samo­tra­cia” (Digi­tos Samo­tra­cios quos quin­que indi­cant Grae­ci Idaeos Dac­ti­los non­cu­pa­ri). Signi­fi­ca­ti­vo il ver­bo non­cu-pari; fa par­te del les­si­co reli­gio­so. G. Cap­de­vil­le segna­la: “Digi­dii o Digi­tii han­no la stes­sa radi­ce di digi­tus”. Mastro­cin­que li iden­ti­fi­ca con pro­ba­bi­li Lares Prae­sti­tes di Pre­ne­ste e ne rile­va il nes­so For­tu­na-Rea per cui ai Dat­ti­li Idei, alle­va­to­ri di Zeus, potreb­be­ro cor­ri­spon­de­re a Pre­ne­ste i Digi­dii, Dèi fra­tel­li del­la ver­gi­ne geni­tri­ce e nutri­to­ri di altre vesta­li alle­va­tri­ci di Cecu­lo, fon­da­to­re dell’abitato. A Pre­ne­ste la cit­tà è il san­tua­rio stes­so, dedi­ca­to alla dea For­tu­na Pri­mi­ge­nia o Pro­to­go­nos, Fors For­tu­na, ter­mi­ni che uni­sco­no insie­me un con­cet­to di fecon­di­tà e di sor­te. Bre­lich par­la di un castis­si­mo cul­to di una ver­gi­ne fecon­da e madre casta. Essa si pone pri­ma del­la dif­fe­ren­zia­zio­ne dei ses­si, pri­mo­ge­nei­tà indif­fe­ren­zia­ta. Per lo stu­dio­so “la ric­chez­za e varie­tà del lin­guag­gio cul­tua­le arcai­co, i sin­go­li ele­men­ti del cul­to evo­ca­no una real­tà per così dire pre-cosmi­ca, indif­fe­ren­zia­ta e ger­mi­na­le che è sol­tan­to con­di­zio­ne di una ‘futu­ra’ orga­niz­za­zio­ne cosmi­ca; Iup­pi­ter e Iuno infan­ti pen­do­no dal­le sue mam­mel­le”; lo affer­ma Cicerone.1 Essi sono appe­na nati in una grot­ta dove stil­la acqua, ele­men­to cao­ti­co, ger­mi­na­le e ora­co­la­re. Il cul­to, dun­que, per le ori­gi­ni del fon­da­to­re del­la cit­tà, si ricon­net­te ai Cabi­ri di Samo­tra­cia, testi­mo­nian­do la pre­sen­za del miste­rio­so popo­lo dei Pela­sgi, di gran lun­ga più anti­co dei Lati­ni stessi.

La dea madre per i Cabi­ri era Cabi­ra. Nome, aggiun­ge Keré­nyi, che nel­la lin­gua gre­ca fu tra­dot­to con Rea (si veda quan­to affer­ma­to da Mastro­cin­que) e con Deme­tra (Dâ Meter), con Eca­te e con Afro­di­te. Si esa­mi­ni con atten­zio­ne quan­to vie­ne a dir­ci Keré­nyi: una dea vec­chia cor­ri­spon­den­te a Deme­tra-Rea, una dea dell’Amore, una dea luna­re e oscu­ra, lega­ta all’Ade, sot­to la for­ma di Ecate-Proserpina-Core.

Come pote­va Cabi­ra iden­ti­fi­car­si con tut­to que­sto? Ascol­tia­mo quan­to lo stu­dio­so vie­ne a dire altro­ve, a pro­po­si­to di che cosa i Cabi­ri inten­des­se­ro con Myste­ria: “com­ple­ta­men­te indi­ci­bi­le rima­ne­va ciò che era più indi­ci­bi­le, il cen­tro stes­so dei Myste­ria, la loro vera gran­de dea che già nel­le figu­re di Deme­tra e di sua figlia, appa­ri­va in un cer­to qual modo in for­ma impro­pria. Essa regna­va sul­la festa qua­le Arre­tos Kura: la fan­ciul­la indi­ci­bi­le”. È qui deli­nea­to il prin­ci­pio che sta alla base dei myste­ria: tan­ti nomi che ripor­ta­no ad una dea sola. Essa può con­ci­lia­re in sé la madre, la figlia e la dea dell’amore. Una tria­de: nel­le ori­gi­ni dell’indifferenziato reli­gio­so, una sola Gran­de Madre.

Di que­ste dif­fe­ren­ti natu­re, quel­la for­se più in ombra a Pre­ne­ste appa­re la dea nera, ma cer­ta­men­te il cul­to dei Digi­dii lega­va la divi­ni­tà anche a que­sta sfe­ra, la più oscu­ra e taciu­ta for­se per­ché la più lega­ta al mon­do eso­te­ri­co del­le ini­zia­zio­ni. Ecco un altro moti­vo, oltre al cul­to di Gio­ve infan­te, che rese a lun­go e con alter­na sor­te, invi­sa all’Urbe la dea For­tu­na, fin­ché non si riu­scì ad assi­mi­lar­la alla men­ta­li­tà di Roma, atten­ta a son­da­re solo la situa­zio­ne pre­sen­te, per con­fer­mar­vi la pro­pria azio­ne, poco pro­pen­sa alla fata­li­sti­ca estra­zio­ne del­le sor­tes, in cui l’azione e il corag­gio del vir nul­la pos­so­no e per nul­la inci­de sul fato già scrit­to una for­te volon­tà di cam­bia­men­to. Il foe­dus, l’operazione stes­sa del rito garan­ti­sco­no la fidu­cia (fides). Bene ope­ran­do, gli dèi sono favo­re­vo­li, sem­pre. Erran­do, resta pos­si­bi­le la cor­re­zio­ne al mal ope­ra­to. Il futu­ro rima­ne in sostan­za aper­to ad ogni solu­zio­ne o cor­re­zio­ne pos­si­bi­le, essen­do Gio­ve leg­ge egli stes­so, libe­ro, egli solo, dal­le cate­ne del­la gre­ca Neces­si­tà. Il tem­pio dell’area sacra di Lar­go di Tor­re Argen­ti­na dedi­ca­to For­tu­nae huiu­sce diei, “la Sor­te di que­sto gior­no”: “dell’oggi”, ne è un chia­ro esem­pio. Resta da deter­mi­na­re nel dirit­to qua­le valen­za aves­se l’istituzione del­la sor­ti­tio, se pub­bli­ca o anche reli­gio­sa alme­no fino all’Impero.1 Qua­lo­ra si trat­tas­se del­la secon­da ipo­te­si avrem­mo anche nel­le leg­gi di Roma la pene­tra­zio­ne di un con­cet­to giu­ri­di­co ad essa estra­neo, lega­to alla sacra­li­tà del­le sor­tes e pro­ba­bil­men­te si trat­te­reb­be di un’istituzione intro­dot­ta dal­la monar­chia etru­sca, for­se da Ser­vio Tul­lio. Dal­la dea quel re era visi­ta­to, secon­do Plutarco,2 attra­ver­so una fine­strel­la ogni not­te. Il ricor­so alle sor­tes fu comun­que mol­to limi­ta­to. Sap­pia­mo che nel 241 a. C. il sena­to proi­bì a Q. Luta­zio Cer­co la con­sul­ta­zio­ne dell’oracolo di Preneste.

Roma appa­re atten­ta a son­da­re solo la situa­zio­ne pre­sen­te, per con­for­mar­vi la pro­pria azio­ne. Cir­ca l’oracolo, esso era acces­si­bi­le in soli due gior­ni all’anno: l’11 e il 12 apri­le; le sor­tes, tavo­let­te di rove­re, insculp­tae pri­sca­rum lit­te­ra­rum notis, let­te­re di un alfa­be­to sco­no­sciu­to, era­no estrat­te dal­la mano inge­nua di un bam­bi­no e pre­di­ce­va­no il futu­ro. Un sogno ave­va gui­da­to il suo sco­pri­to­re Nume­rius Suf­fi­stius alla roc­cia da cui era­no sca­tu­ri­te. Era­no sta­te poi chiu­se in un’urna, rica­va­ta da un vici­no uli­vo stil­lan­te mie­le di buon auspicio.

Inte­res­san­ti le con­si­de­ra­zio­ni sul­la radi­ce di Nume­rius, che si lega eti­mo­lo­gi­ca­men­te al re Numa. Tale sovra­no fu indi­ca­to, con visto­so erro­re cro­no­lo­gi­co, qua­le disce­po­lo di Pita­go­ra. Ebbe for­se cono­scen­ze magi­co-reli­gio­se di un sapien­zia­le lega­to ai nume­ri; del resto i Digi­dii risul­ta­no mae­stri di anti­chis­si­me cono­scen­ze magi­co-ope­ra­ti­ve, espli­ca­te nell’uso ini­zia­ti­co del­le dita, con rife­ri­men­to anche alla nume­ro­lo­gia. Il nome Pom­pi­lio, tra l’altro, con­ter­reb­be in lin­gua osca, nel suo eti­mo, il nume­ro sacro alla Gran­de Madre: il cin­que. Cin­que sono i Digi­dii Dak­ty­loi, dita del­la mano, cin­que i peta­li del melo e del­le rosa­cee, cin­que le pun­te del­le foglie del pla­ta­no, del­la vite e dell’edera sacre alla divi­ni­tà. È sacro alla dea soprat­tut­to il pen­tal­fa, rap­pre­sen­ta­zio­ne alle­go­ri­ca dell’uomo, il cosid­det­to “uomo di Vitru­vio”. Ricor­dia­mo nel­la Roma rina­sci­men­ta­le l’istituzione dell’Accademia Vitru­via­na, che alla luce di quan­to espo­sto, assu­me un ben più pro­fon­do signi­fi­ca­to. Il pen­tal­fa è figu­ra geo­me­tri­ca che ripro­po­ne in ogni sua par­te il rap­por­to aureo, rite­nu­to dai Pita­go­ri­ci fir­ma divi­na dell’Universo.

For­tu­na, pro­tet­tri­ce degli arte­fi­ci e fab­bri, in ori­gi­ne suoi divi­ni figli (chia­ro rap­por­to che la lega a Vul­ca­no), è anche la dea dei navi­gan­ti nel mare in tem­pe­sta. Non è un caso che nel­la lin­gua ita­lia­na “for­tu­na­le” indi­chi una tem­pe­sta mari­na. I Dio­scu­ri che appa­ri­va­no ai navi­gan­ti, cri­stia­na­men­te sosti­tui­ti dai “fuo­chi di Sant’Elmo”, era­no in ori­gi­ne due Cabi­ri I “Digi­dii”, nani e gigan­ti, gran­di dèi.

Cosa rac­con­ta­no i miti di que­sti biz­zar­ri esse­ri divi­ni che sono dita, fal­li e lar­ve lega­te all’Ade e anco­ra ron­zan­te mor­mo­rio di api quan­do si appre­sta­no, in quan­to poten­ze semi­na­li, a dare nuo­va vita?

E for­se pas­sa­ro­no nei cul­ti lati­ni con for­me ana­lo­ghe ai Lari? Pre­sie­do­no col Cabi­ro Her­mes all’eterno ciclo di vita e mor­te, attra­ver­so due porte: 

l’una che scen­de ver­so Borea ed è per gli uomini,
l’altra ver­so Noto… per là
non entra­no gli uomi­ni, che è la via degli immor­ta­li
”.

E chi è ini­zia­to, dopo la mor­te, sa distin­gue­re la Por­ta dell’Oblio da quel­la del­la Memo­ria, per ope­ra­re la scel­ta giu­sta. La dan­za che mima ed accom­pa­gna que­sto eter­no ciclo, fu det­ta maro ed ha un anda­men­to oscil­lan­te come quel­lo dei navi­gan­ti sce­si a ter­ra dopo una lun­ga traversata.

Pos­si­bi­le che nel­le dan­ze degli Arva­li e dei Salii fos­se flui­to qual­che dimen­ti­ca­to richia­mo ad essa. Sul mon­te Ida la Gran­de Madre, appog­gian­do­si alla roc­cia, nel­lo sfor­zo del par­to, die­de vita anche a loro. Essi non sono che il cal­co del­le sue divi­ne dita. In una con­ce­zio­ne eve­me­ri­sti­ca si direb­be: l’uomo, sco­per­ta la poten­za del suo pol­li­ce oppo­ni­bi­le – l’Eracle dat­ti­li­co –, ne fece, con gli altri suoi quat­tro com­pa­gni, del­le divi­ni­tà. Medi­ci, fab­bri lega­ti al Cabi­ro Efe­sto, maghi lega­ti all’altrettanto Cabi­ro Her­mes. Musi­ci, essi han­no avu­to tra gli ini­zia­ti Orfeo stes­so. Ed anche Cad­mo che, resti­tuen­do a Zeus la fol­go­re e il fascio dei suoi ner­vi, aprì il tem­po bre­ve ed irri­pe­ti­bi­le degli Eroi, fu dai Cabi­ri ini­zia­to a Samo­tra­cia e vi spo­sò la “divi­na” Armonia.

Gli “indi­gi­ta­men­ta”

Potrà for­se stu­pi­re ma l’antico sapien­zia­le dei Digi­dii Dak­ti­loi, magi­co-cono­sci­ti­vo ed ope­ra­ti­vo, è pas­sa­to a Roma nell’operazione sacra­le più miste­rio­sa, per noi moder­ni, indi­ca­ta come indi­gi­ta­men­ta. Si veda R. Del Pon­te, Aspet­ti del les­si­co pon­ti­fi­ca­le: “Pao­lo Dia­co­no nel suo com­men­to a Festo, può asse­ri­re che gli indi­gi­ta­men­ta ‘sono for­mu­le incan­ta­to­rie’ (incan­ta­men­ta) e dei ‘segni’ (indi­cia)”. Nei libri pon­ti­fi­ca­li era­no con­ser­va­ti i nomi con cui indi­gi­ta­re gli dèi, cioè chia­mar­li a pro­te­zio­ne col giu­sto nome per la fun­zio­ne richie­sta. È mol­to pro­ba­bi­le che l’espressione Di Indi­ge­tes non voles­se dire “dèi indi­ge­ni” ma “dèi invo­ca­ti, men­tre si com­pie un gesto o una pres­sio­ne con le dita”. Si può pen­sa­re che cia­scu­na let­te­ra del nome invo­ca­to cor­ri­spon­des­se figu­ra­ti­va­men­te al gesto con cui si indi­ca­va un cer­to nume­ro, come ci fa capi­re Mar­zia­no Capel­la nel suo De Nup­tiis Phi­lo­lo­giae et Mer­cu­rii (VII, 728–729). Più cre­di­bi­le che si trat­tas­se di un siste­ma mol­to com­ples­so come quel­lo assun­to dagli Orfici3 e maga­ri si risen­tis­se anche di teo­rie pita­go­ri­che. Sap­pia­mo che nell’antichità cer­te dita del­la mano destra indi­ca­va­no stru­men­ti di fab­bri qua­li incu­di­ne, mar­tel­lo, col­tel­lo, cuneo. Ci se ne ser­vi­va per gesti reli­gio­si come la bene­di­zio­ne det­ta “del­la dea Miri­na”, che è pas­sa­ta nei cul­ti cri­stia­ni a sim­bo­lo del­la Tri­ni­tà: tre dita alza­te del­la mano destra, le altre due piegate.4 La si ritro­va nel­la fac­cia­ta ester­na del Duo­mo di Car­ra­ra, lega­ta ai Mae­stri Com­ma­ci­ni. Par­ti­co­la­re che potreb­be non ave­re signi­fi­can­za spe­ci­fi­ca, nel film di Lee il gigan­te nero sta­bi­li­sce con il bam­bi­no ita­lia­no un ele­men­ta­re codi­ce di comu­ni­ca­zio­ne attra­ver­so leg­ge­ri col­pi di mano sul­la spalla.

Nasci­ta di Miner­va-Ate­na, dea “irre­ti­ta”

Resta anco­ra da pro­va­re una deri­va­zio­ne, attra­ver­so cul­ti risa­len­ti ai Pela­sgi, di Pal­la­de Ate­na, dall’antica dea Cabi­ra. Ero­do­to ricor­da che gli Ate­nie­si era­no Pela­sgi e cam­bia­ro­no lin­gua quan­do furo­no assor­bi­ti dal­la fami­glia greca.1 Sem­bra che Ari­sto­te­le (in Her­po­cra­tio Gram­ma­ti­cus) soste­nes­se che nel cul­to di Ate­na si cele­bras­se in real­tà la luna. Il Gra­ves vede in Ate­na una dea dal tri­pli­ce aspet­to e se que­ste carat­te­ri­sti­che si rife­ri­sco­no alle fasi del­la luna, ripor­ta­no anche alla tri­pli­ce dea Cabi­ra.

Ebbe Ate­na l’appellativo di Meter e, come tale, cor­ri­spon­de alla fase del­la luna calan­te che invec­chia nel cie­lo fino a spa­ri­re. In que­sto aspet­to è la Vegliar­da, assi­sti­ta dal­la civet­ta dora­ta e dal cor­vo, che da bian­co lei rese nero.3 Mol­to si avvi­ci­na alla Pro­sin­na degli anti­chi Miste­ri di Ler­na e alla roma­na Anna Peran­na o Peren­na. Si capi­reb­be ancor meglio la bef­fa che Anna Peren­na (OV., Fasti III) gio­ca a Mar­te, inva­ghi­to di Miner­va, andan­do lei all’incontro amo­ro­so del dio, di cui dove­va far­si mez­za­na. Miti gre­ci arcai­ci, tra l’altro, rac­con­ta­no di Ate­na con­cu­pi­ta da Ares, Posei­do­ne, Borea ed Efesto. 

A Mar­te, l’intoccabile ver­gi­ne, offri­reb­be la vec­chia che è pur se stes­sa. Ate­na è anche Core o Eca­te, la luna nera. S’identifica in que­sta fase con Aglau­ro: il lato oscu­ro tra­gi­co del­la dea, lato simi­le, dice Keré­nyi, a Per­se­fo­ne. È l’Atena nera. La cesta in cui, secon­do la tra­di­zio­ne, la dea pose Erit­to­nio, pri­mo re del­la cit­tà, è par­ti­co­lar­men­te simi­le a quel­la miste­ri­ca; da essa sgu­scia la testa di una ser­pe ed Erit­to­nio ave­va gam­be di ser­pen­te ed era figlio di Efe­sto. Un ser­pen­te era lo spi­ri­to del­la cit­tà e sta­va nell’Eretteo, nutri­to, una vol­ta al mese, con focac­ce gron-dan­ti mie­le, ali­men­to sacro come la luna­re sper­ma­ti­ca rugia­da. Una ser­pe sta accan­to allo scu­do di Ate­na e si dice fos­se quel­la che esce dal­la cesta ini­zia­ti­ca. L’oscurità accom­pa­gna entro un cuni­co­lo le Erse­fo­re o Arre­fo­re, por­ta­tri­ci di rugia­da o del­le cose indi­ci­bi­li (arre­ta). Esse non san­no che cosa por­ta­no in testa, né la sacer­do­tes­sa, che affi­da loro i sacri ogget­ti, sa. Alla fine del cuni­co­lo, depon­go­no quan­to loro affi­da­to e ripor­ta­no indie­tro, sem­pre sen­za sape­re, un’altra cosa, tut­ta rav­vol­ta in fasce.1 Riti che appa­io­no vici­ni a quel­li degli anti­chi Cabi­ri ed anche alle suc­ces­si­ve ini­zia­zio­ni dionisiache.

Se la Meter cor­ri­spon­de alla fase di luna calan­te fino alla luna nera, dove madre e figlia coin­ci­do­no, esi­ste­va anche un figu­ra cen­tra­le, che fu sop­pres­sa dal­la soprav­ve­nu­ta cul­tu­ra patriar­ca­le degli Elle­ni: è la Nin­fa, luna cre­scen­te, tesa a rag­giun­ge­re, come un grem­bo di don­na, la gra­vi­da pie­nez­za. Indi­scu­ti­bil­men­te in quest’aspetto è la Dea dell’Amore.