SIMMACO E I SUOI TEMPI

di RENATO DEL PONTE

estrat­to da “In dife­sa del­la Tra­di­zio­ne” di Quin­to Aure­lio Sim­ma­co (a cura di Rena­to Del Pon­te)
2008
Edi­zio­ni Arŷa Genova 

VITA DI SIMMACO

Con­tra­ria­men­te a quel­lo che potreb­be sem­bra­re, la fami­glia di Sim­ma­co (d’ora in poi chia­me­re­mo sem­pli­ce­men­te così Quin­to Aure­lio Sim­ma­co, det­to l’“oratore”) non era di anti­ca nobil­tà. L’autore del­le for­tu­ne del­la stir­pe è infat­ti Aure­lio Giu­lia­no (o Tul­lia­no) Sim­ma­co, cer­ta­men­te di ordi­ne eque­stre nel 319 all’epoca di Costan­ti­no, allor­ché fu pro­con­so­le di Aca­ia, ma nomi­na­to sena­to­re nel 328–29, pri­ma di dive­ni­re con­so­le nel 330. Que­sto per­so­nag­gio è sta­to di soli­to con­si­de­ra­to come il non­no di Sim­ma­co, ma oggi si pre­fe­ri­sce veder­lo come il bisnon­no.

Degno di rilie­vo è il padre di Sim­ma­co, Lucio Aure­lio Avia­nio Sim­ma­co, poi­ché con lui comin­cia a deli­near­si la poli­ti­ca di “resi­sten­za” (atti­va o pas­si­va, a secon­da del­le cir­co­stan­ze) di fron­te alla avan­za­ta, ormai qua­si inar­re­sta­bi­le, dopo che dal bas­so era per­ve­nu­ta alle aule impe­ria­li, dell’influenza e del­la pres­sio­ne cri­stia­na nel­la stes­sa Roma, capi­ta­le “mora­le” dell’Impero. Pon­ti­fex maior e quin­de­cem­vir sacris faciun­dis, pre­fet­to dell’Urbe nel 364–65 e con­so­le desi­gna­to per il 377, è for­se lui il pri­mo pro­ma­gi­ster pon­ti­fi­cum a rive­sti­re le fun­zio­ni effet­ti­ve di pon­te­fi­ce mas­si­mo, dopo che tale digni­tà fu rifiu­ta­ta dall’imperatore Gra­zia­no nel 376 (l’anno stes­so in cui il padre di Sim­ma­co mori­rà) e fors’anche l’oggetto dell’aspra invet­ti­va dell’anonimo Car­men con­tra paga­nos, se sono esat­te le sup­po­si­zio­ni del Maz­za­ri­no (anche se sono sta­te ten­ta­te altre identificazioni).

Il nostro Sim­ma­co, nato intor­no al 340, rive­sti­te in data impre­ci­sa­ta la que­stu­ra e la pre­tu­ra (che all’epoca non era­no tan­to hono­res, quan­to mune­ra patri­mo­nii), fu cor­rec­tor Luca­niae et Bru­tii nel 365 e pro­con­so­le d’Africa nel 373–74, sot­to il paci­fi­co regno di Valen­ti­nia­no I (364–375). Al 371 deve risa­li­re il suo matri­mo­nio con Rusti­cia­na, figlia di Mem­mio Vitra­sio Orfi­to, pre­fet­to dell’Urbe nel 353–55 e 357–59, un altro dei cam­pio­ni del paga­ne­si­mo mili­tan­te, se fu pro­prio lui l’autore di quel genia­le siste­ma di pro­pa­gan­da reli­gio­sa che furo­no i con­tor­nia­ti.

Stret­tis­si­mi furo­no i rap­por­ti di ami­ci­zia e paren­te­la fra la gens dei Sim­ma­chi e quel­la dei Nico­ma­chi. Dei due figli che ebbe, una fem­mi­na (nata for­se attor­no al 375 o poco pri­ma) ed un maschio (nato nel 384), la pri­ma, di cui non si sa il nome, spo­se­rà nel­la secon­da metà del 388 Virio Nico­ma­co Fla­via­no jr., figlio del più famo­so Virio Nico­ma­co Fla­via­no sr., un altro – e for­se il più riso­lu­to — dei capi del “par­ti­to paga­no” a Roma e cugi­no di pri­mo gra­do del­lo stes­so Sim­ma­co, men­tre il secon­do, Quin­to Fabio Mem­mio Sim­ma­co, spo­se­rà (for­se nel 401?) Gal­la, figlia dell’altro figlio di Virio Nico­ma­co Fla­via­no sr., cioè Nico­ma­co Cle­men­ti­nia­no. Il che può dar­ci un’idea del tipo di endo­ga­mia vigen­te all’epoca all’interno dell’aristocrazia sena­to­ria romana.

Ingen­ti furo­no le ric­chez­ze dei Sim­ma­chi: una casa a Capua, non meno di tre edi­fi­ci a Roma, di cui uno a Tra­ste­ve­re ed uno sul Celio, e ben quin­di­ci vil­le, la mag­gior par­te del­le qua­li nei pres­si di Roma e nel Lazio o in Cam­pa­nia, una in Sici­lia ed una in Mau­ri­ta­nia. Note­vo­le dove­va esse­re il nume­ro di schia­vi impie­ga­ti ai lavo­ri agri­co­li o manua­li pres­so le vil­lae. Nel 401 Sim­ma­co spen­de­rà non meno di due­mi­la lib­bre d’oro per i gio­chi cir­cen­si in ono­re del figlio, che assu­me­va in quell’anno la pre­tu­ra. E dire che il patri­mo­nio dei Sim­ma­chi non pas­sa­va, in quell’epoca, per uno dei più rag­guar­de­vo­li fra il ceto sena­to­rio romano…

Nel­la sua biblio­te­ca si tro­va­va­no la Histo­ria natu­ra­lis di Pli­nio il Vec­chio, ope­re di Cice­ro­ne, Var­ro­ne, Vale­rio Mas­si­mo, Teren­zio, Plau­to, Ora­zio, Vir­gi­lio e Pli­nio il Gio­va­ne. È pro­ba­bi­le che pro­prio lui o il padre sia­no i pri­mi costi­tu­to­ri di que­sta impo­nen­te biblio­te­ca che, venen­do col tem­po sem­pre più aumen­ta­ta e per­fe­zio­na­ta, diver­rà un pun­to di rife­ri­men­to costan­te per l’intellettualità roma­na di sen­ti­men­ti paga­ni o quan­to­me­no conservatrice.

Basti pen­sa­re che, di con­cer­to coi Nico­ma­chi, fu ini­zia­ta nel­le case dei Sim­ma­chi la emen­da­tio, la recen­sio e la rela­ti­va tra­smis­sio­ne di tut­ta l’opera livia­na: da paro­le del­le stes­so Sim­ma­co in una let­te­ra col­lo­ca­bi­le fra il 398 e il 401, pos­sia­mo imma­gi­na­re che que­sta straor­di­na­ria impre­sa sia sta­ta ini­zia­ta pro­prio da lui: trent’anni dopo la con­ti­nua­va il nipo­te Appio Nico­ma­co Destro e, sem­pre pro­prio dom­nis Sym­ma­chis, Tascio Vit­to­ria­no, che con­tem­po­ra­nea­men­te pub­bli­ca­va la tra­du­zio­ne lati­na (fat­ta da Virio Nico­ma­co Fla­via­no sr.) del­la Vita di Apol­lo­nio di Tia­na di Filostrato.

Fon­da­men­ta­le fu l’importanza di que­sto pun­to di rife­ri­men­to cul­tu­ra­le per la tra­smis­sio­ne del pen­sie­ro dell’antichità sino ai gior­ni nostri: per dar­ne un’idea, basti con­si­de­ra­re che più di cen­to anni dopo for­me­rà la sua edu­ca­zio­ne stu­dian­do i testi di quel­la biblio­te­ca Man­lio Seve­ri­no Boe­zio, il qua­le dopo la mor­te del padre sarà pra­ti­ca­men­te alle­va­to in casa di Aure­lio Mem­mio Sim­ma­co (con­so­le nel 485), il pro­ni­po­te diret­to del nostro Sim­ma­co, che a Boe­zio darà in spo­sa la pro­pria figlia Rusti­cia­na. È da imma­gi­na­re che la famo­sa biblio­te­ca sia anda­ta disper­sa (come altre cose essen­zia­li per la tra­di­zio­ne di Roma) duran­te la guer­ra roma­no-goti­ca allor­ché, dopo l’entrata in Roma di Toti­la nel dicem­bre 546, Rusti­cia­na vedrà con­fi­sca­ti tut­ti i pro­pri beni per aver appog­gia­to la cau­sa bizan­ti­na (Boe­zio ed il padre era­no sta­ti ucci­si da Teo­do­ri­co rispet­ti­va­men­te nel 524 e 526).

Il fit­ti­zio con­vi­to fra auto­re­vo­li per­so­nag­gi dell’aristocrazia sena­to­ria che Macro­bio mol­ti anni dopo imma­gi­ne­rà, nei suoi Satur­na­lia, avve­nu­to alla fine del 384, dà un’idea del tipo di per­so­nag­gi che potes­se­ro radu­nar­si nel­la biblio­te­ca pri­va­ta di Sim­ma­co o in quel­la di Vet­tio Ago­rio Pretestato.

Di cer­to, fra gli intel­let­tua­li del cir­co­lo sim­ma­chia­no – a par­te i casi scon­ta­ti di Pre­te­sta­to e di Fla­via­no – pote­ro­no anno­ve­rar­si Nau­cel­lio di Sira­cu­sa, Ceci­na Albi­no, il poe­ta Auso­nio, il filo­so­fo ari­sto­te­li­co Clau­dio Anto­nio, il gram­ma­ti­co Aru­sia­no Mes­sio, lo sto­ri­co Eutro­pio (il noto epi­to­ma­to­re di Livio), quel Sal­lu­stio che nel 395 emen­dò Apu­leio, for­se lo stes­so sto­ri­co Ammia­no Marcellino.

Nel 382 Sim­ma­co capeg­giò la lega­zio­ne del Sena­to reca­ta­si a Mila­no dall’imperatore Gra­zia­no per otte­ne­re la revo­ca dei recen­ti prov­ve­di­men­ti che ten­de­va­no a col­pi­re i cul­ti paga­ni ed in par­ti­co­la­re per cal­deg­gia­re il ritor­no dell’ara Vic­to­riae nell’aula del Sena­to: ma non fu nem­me­no accol­to nel­la cor­te imperiale.

Mor­to vio­len­te­men­te Gra­zia­no nel 383 per mano dell’usurpatore Magno Mas­si­mo e suc­ce­du­to a Gra­zia­no il gio­va­nis­si­mo fra­tel­lo Valen­ti­nia­no II, la situa­zio­ne par­ve muta­re e Sim­ma­co fu nomi­na­to pre­fet­to dell’Urbe, essen­do con­tem­po­ra­nea­men­te l’amico Pre­te­sta­to pre­fet­to al pre­to­rio d’Italia. Cor­re­va l’anno 384: la lega­zio­ne che egli nuo­va­men­te capeg­giò nell’estate, que­sta vol­ta in veste di pre­fet­to e con­tem­po­ra­nea­men­te por­ta­vo­ce del­la mag­gio­ran­za nume­ri­ca dei sena­to­ri, ave­va mol­te più pos­si­bi­li­tà di suc­ces­so che non quel­la di due anni pri­ma: l’orazione pro­nun­cia­ta in quel­la occa­sio­ne è il testo da noi pub­bli­ca­to e tra­dot­to con ade­gua­to com­men­to. Solo le impli­ci­te minac­ce di sco­mu­ni­ca rivol­te dal vesco­vo Ambro­gio ad una cor­te poli­ti­ca­men­te debo­le pote­ro­no impe­di­re che le odio­se dispo­si­zio­ni del 382 venis­se­ro revocate.

Nel dicem­bre del­lo stes­so anno, la mor­te improv­vi­sa di Pre­te­sta­to toglie­va a Sim­ma­co il suo mag­gior soste­gno e quin­di egli, fat­ta­si la sua posi­zio­ne inso­ste­ni­bi­le, riten­ne oppor­tu­no ras­se­gna­re le dimis­sio­ni dal­la cari­ca, dive­nu­ta ogget­to di insi­dio­si e con­ti­nui attac­chi (anno 385).

Ave­va per­so la magi­stra­tu­ra, ma con­ser­va­va il pre­sti­gio: era rite­nu­to il prin­ceps sena­tus e, in vir­tù del­la sua fama d’eloquenza, ricer­can­do­si per Mila­no un mae­stro d’arte reto­ri­ca, la scel­ta fra i can­di­da­ti fu com­mes­sa a Sim­ma­co. Ed egli (si era anco­ra al 384, duran­te la pre­fet­tu­ra urba­na) indi­cò e rac­co­man­dò al vesco­vo Ambro­gio nien­te­me­no che Ago­sti­no – sin­go­la­re iro­nia del­la sto­ria! – il futu­ro san­to e filo­so­fo, all’epoca di fede manichea.

Un momen­to di peri­co­lo fu vis­su­to da Sim­ma­co a cau­sa dell’usurpatore Magno Mas­si­mo, di cui dovet­te pro­nun­cia­re il pane­gi­ri­co in Sena­to nel 388, cosa che fu natu­ral­men­te giu­di­ca­ta cri­men maie­sta­tis dai legit­ti­mi sovra­ni Valen­ti­nia­no II e Teo­do­sio: ma il per­do­no non tar­dò a veni­re e per­si­no l’agognata nomi­na a con­so­le ordi­na­rio, nel 391.

Sot­to tale veste, pro­nun­cian­do Sim­ma­co in Mila­no un pane­gi­ri­co a Teo­do­sio, ebbe l’ardire di rei­te­ra­re pro­prio a lui la richie­sta del­la resti­tu­zio­ne dell’ara Vic­to­riae, col solo effet­to di susci­ta­re l’ira del cat­to­li­cis­si­mo sovra­no. Ma i tem­pi del­la restau­ra­zio­ne paga­na sem­bra­ro­no far­si final­men­te vici­ni con l’usurpazione di Euge­nio (392–394) che, per quan­to non paga­no (por­ta­va peral­tro la bar­ba da filo­so­fo), sem­brò appog­gia­re aper­ta­men­te le vel­lei­tà dell’aristocrazia sena­to­ria, per­met­ten­do alfi­ne il ritor­no dell’ara Vic­to­riae nel­la curia e restau­ran­do i con­tri­bu­ti (sia pure a tito­lo per­so­na­le) per i cul­ti avi­ti. In tale fran­gen­te si pose in pri­ma linea soprat­tut­to Virio Nico­ma­co Fla­via­no e suo figlio (da qual­che anno dive­nu­to gene­ro di Sim­ma­co): il nostro rima­se inve­ce abba­stan­za defi­la­to, for­se memo­re del peri­co­lo cor­so all’epoca di Magno Mas­si­mo (e i fat­ti gli daran­no ragione).

È intan­to una piog­gia di ono­ri per i Nico­ma­chi (e un po’ anche per i Sim­ma­chi, visto che il figlio del nostro ver­rà nomi­na­to, appe­na decen­ne, que­sto­re, cari­ca ono­ri­fi­ca): crea­to pre­fet­to dell’Urbe, Fla­via­no jr. farà cele­bra­re nel 394 i solen­ni Mega­le­sia in ono­re del­la Gran­de Madre, men­tre il padre, crea­to pre­fet­to al pre­to­rio d’Italia, non tar­de­rà ad appo­star­si, con Euge­nio ed il gene­ra­le Arbo­ga­ste, con l’ultimo eser­ci­to paga­no del mon­do anti­co sul­le spon­de del Fri­gi­do (oggi Vipac­co) alle por­te orien­ta­li d’Italia, in atte­sa di Teodosio.

La disfat­ta di Euge­nio, il tra­gi­co sui­ci­dio di Fla­via­no sr., la for­za­ta con­ver­sio­ne del gene­ro, sfio­re­ran­no appe­na Sim­ma­co, peral­tro col­pi­to dolo­ro­sa­men­te negli affet­ti più cari.

Si asten­ne a lun­go da ogni occu­pa­zio­ne let­te­ra­ria, la sua salu­te peg­gio­rò: tra­scor­re­va sem­pre più fre­quen­te­men­te i suoi otia nel­le vil­le che pos­se­de­va in Cam­pa­nia, affet­to spes­so da acu­ti dolo­ri ai reni, sof­fe­ren­te anche di got­ta e poda­gra. Cio­no­no­stan­te si ado­pe­rò atti­va­men­te per la ria­bi­li­ta­zio­ne del­la memo­ria del cugi­no e per il recu­pe­ro del patri­mo­nio, con­fi­sca­to, del gene­ro: sfor­zi tut­ti che sor­ti­ro­no poi a buon effet­to tra il 396 e il 399, anno in cui Virio Nico­ma­co Fla­via­no jr., com­ple­ta­men­te ria­bi­li­ta­to, fu riac­col­to a cor­te (gover­na­va allo­ra l’Occidente Ono­rio, assi­sti­to da Sti­li­co­ne) e nuo­va­men­te nomi­na­to pre­fet­to dell’Urbe.

Nel­lo stes­so anno 401 in cui for­se si cele­bra­va il matri­mo­nio fra Gal­la, figlia di Nico­ma­co Cle­men­ti­nia­no, e l’appena dicias­set­ten­ne suo figlio Mem­mio, Sim­ma­co otte­ne­va per lui la pre­tu­ra, che cele­brò son­tuo­sa­men­te con solen­ni gio­chi di fie­re e gla­dia­to­ri nel circo.

Nel 402, in feb­bra­io, men­tre i Goti deva­sta­va­no il Vene­to e la Ligu­ria, fu anco­ra man­da­to in lega­zio­ne alla cor­te di Mila­no, da cui ritor­nò, come ebbe a scri­ve­re, este­nua­to “per la pesan­tez­za del viag­gio ed i rigo­ri dell’inverno”. E poco dopo morì, in quel­lo stes­so anno, rag­giun­gen­do all’Eliso le ombre di Pre­te­sta­to e Fla­via­no: lo lascia inten­de­re il fat­to che nell’epistolario non com­pa­io­no let­te­re suc­ces­si­ve a quel­la data.