IL POPOLO DI MARTE: LA GUERRA E IL SACRO

di RENATO DEL PONTE.

Arti­co­lo pro­gram­ma­to per “Roma – Amor”.
Edi­zio­ni Arŷa, Geno­va 2022

Spes­so, come rife­ri­to a tut­to ciò che ha lascia­to un’impronta inde­le­bi­le nel­la sto­ria, par­lan­do di Roma anti­ca, ricor­re l’espressione di “miste­ro” e noi stes­si ne abbia­mo fat­to uso più vol­te accen­nan­do al “miste­ro” del­le sue ori­gi­ni, alle divi­ni­tà “arca­ne” che ne han­no pre­sie­du­to le sor­ti, all’enigma del­la sua mis­sio­ne nel mon­do, che tut­to­ra non pare esau­ri­ta. For­se tut­to ciò è con­nes­so in manie­ra ine­stri­ca­bi­le col “miste­ro” del sacri­fi­cio dei suoi cit­ta­di­ni, i qua­li, come scri­ve Cato­ne nel­le Ori­gi­ni, inqua­dra­ti in legio­ni, “era­no sem­pre con alto ani­mo pron­ti ad anda­re in luo­ghi onde sape­va­no non sareb­be­ro mai più tor­na­ti.

Si può allo­ra par­la­re di “miste­ro” lega­to all’esercizio del­la guer­ra per il benes­se­re, la gran­dez­za, l’estensione del nome di Roma, in Ita­lia e nel mon­do? Io cre­do dun­que di sì…

Dedi­che­rò alcu­ne bre­vi con­si­de­ra­zio­ni non alla sto­ria dell’esercito o del­le isti­tu­zio­ni mili­ta­ri roma­ne, su cui esi­ste una vastis­si­ma let­te­ra­tu­ra, ma al rap­por­to fra la guer­ra (bel­lum: e vedre­mo che cosa i roma­ni inten­des­se­ro con tale espres­sio­ne) e il sacro, soprat­tut­to in rife­ri­men­to al tem­po del­le ori­gi­ni e del­la pri­ma res publi­ca. E que­sto dal momen­to che mol­te ricor­ren­ze calen­da­ria­li, dal mese di mar­zo a quel­lo di otto­bre, di ori­gi­ne assai remo­ta, sono dedi­ca­te a feste e ritua­li con­nes­si alla guer­ra.

LE ORIGINI MARZIALI DI ROMA


L’antica costu­man­za ita­li­ca del ver sacrum con­si­ste­va, in epo­ca pro­to­sto­ri­ca, nell’offerta o, meglio, la con­sa­cra­zio­ne di tut­ta una gene­ra­zio­ne o “clas­se di età”, la più gio­va­ne, a un Dio, il qua­le, in Ita­lia, sem­pre fu Marte.

I gio­va­ni e le ver­gi­ni con­sa­cra­ti era­no con­dot­ti, attor­no ai vent’anni, oltre i con­fi­ni del­la comu­ni­tà col capo vela­to. A Roma que­sto deno­ta­va la spe­cia­le con­di­zio­ne di Sacra­ti, “con­sa­cra­ti a un dio”, “invio­la­bi­li”, dal momen­to che la divi­ni­tà stes­sa avreb­be veglia­to sul­la loro sor­te. Così si sareb­be popo­la­ta buo­na par­te dell’Italia in una dire­zio­ne che avreb­be segui­to, da nord a sud, la linea del­la dor­sa­le appen­ni­ni­ca. In gene­re, ripor­ta la tra­di­zio­ne, era un ani­ma­le sacro a Mar­te: un pic­chio, un lupo, un toro, a far da gui­da ai gio­va­ni vela­ti e Livio (XXXIV 44,3) rife­ri­sce come nel­le “pri­ma­ve­re sacre” quel che era con­sa­cra­to al Dio doves­se neces­sa­ria­men­te esse­re nato “fra le calen­de di mar­zo e il gior­no pri­ma del­le calen­de di mag­gio”, cioè fra il 1° mar­zo e il 30 apri­le. Si note­rà che entro que­sti ter­mi­ni cade la data tra­di­zio­na­le del­la fon­da­zio­ne dell’Urbe (21 apri­le) per ope­ra dei divi­ni gemel­li figli di Mar­te, il qua­le ave­va invia­to la sua lupa (imma­gi­ne mar­zia­le del­la vis bel­li­ca) e il suo pic­chio ad assi­ste­re i pic­co­li infan­ti, pri­ma che Fau­sto­lo ed Acca Laren­tia li acco­glies­se­ro nel­la loro capanna.

Del resto, era pro­prio con il mese dedi­ca­to a Mar­te, Mar­tius, che ini­zia­va­no nel con­tem­po la pri­ma­ve­ra, l’anno anti­co e la sta­gio­ne di guer­ra, che sareb­be dura­ta sino ad otto­bre. Gli anti­chi spie­ga­va­no la cosa così: “il mese di mar­zo fu l’inizio dell’anno nel Lazio e a Roma sin dal­la fon­da­zio­ne, per­ché quel­la gen­te era bel­li­co­sis­si­ma” (Fest., 136 l.); “vol­le­ro ave­re come prin­ci­pio dell’anno Mar­zo a cau­sa di Mar­te, pro­mo­to­re del­la loro stir­pe” (Serv., ad Georg. I, 43).

Ma la guer­ra, si sono chie­sti alcu­ni illu­stri stu­dio­si moder­ni (fra que­sti F. Sini ha sot­to­li­nea­to come hostit, in ori­gi­ne, non signi­fi­cas­se “nemi­co” ma lo “stra­nie­ro” a cui si rico­no­sce­va pari­tà di ius col popo­lo roma­no), per quan­to impor­tan­te per gli anti­chi Lati­ni, era la nor­ma­li­tà su cui potes­se fon­dar­si un siste­ma calen­da­ria­le? “Guer­ra e pace”, ha scrit­to S. Ruta, “appar­ten­go­no alla sfe­ra del sacro ed in effet­ti ad esse par­te­ci­pa­no gli uomi­ni, il mon­do degli dèi, nel­lo stes­so tem­po”. Direi dun­que che la rispo­sta è nel­la sto­ria stes­sa di Roma, nel­la sua pras­si, dal momen­to che la vera “pace”, cioè il “pat­to con gli Dèi” (pax deo­rum), non era che il rista­bi­li­men­to di una frat­tu­ra (di cui si inca­ri­ca­va­no gli spe­cia­li­sti del ramo, gli esper­ti dell’arte dei trat­ta­ti: i Fetia­les), essen­do la guer­ra la rego­la costan­te di un popo­lo costret­to, da con­di­zio­ni ambien­ta­li e antro­pi­che par­ti­co­la­ri, a man­te­ner­si in un per­fet­to sta­to di mobi­li­ta­zio­ne. E ciò ha for­gia­to il carat­te­re dei Roma­ni.

L’“INDICTIO BELLI” E L’APERTURA DEL TEMPIO DI GIANO


Dal pun­to di vista reli­gio­so a Roma due diver­se ceri­mo­nie segna­va­no l’inizio del­la guer­ra: l’indic­tio bel­li e l’apertura del tem­pio di Gia­no. Il vero atto di dichia­ra­zio­ne di guer­ra – dopo che que­sta era sta­ta pro­cla­ma­ta dal Re e dal Sena­to come purum pium­que duel­lum – con­si­ste­va in una vera e pro­pria ope­ra­zio­ne magi­ca. Un Fezia­le sca­glia­va in ter­ri­to­rio nemi­co un gia­vel­lot­to dal­la pun­ta di fer­ro o di legno di cor­nio­lo (cor­nus: un arbor felix) con la pun­ta indu­ri­ta dal fuo­co (hastam san­gui­neam praeu­stam); un tipo di arma, quest’ultimo, che rin­via a tem­pi e con­ce­zio­ni pre­i­sto­ri­che. Si trat­ta for­se di quel­la che Var­ro­ne, nei suoi per­du­ti Libri de gen­te popu­li Roma­ni, defi­ni­sce come hasta pura (cioè sen­za pun­ta metal­li­ca) e come il con­tras­se­gno di chi, in epo­ca anti­ca, aves­se per pri­mo vin­to in uno scon­tro a sin­go­lar ten­zo­ne nel cor­so di una battaglia.

Con quest’arma Vir­gi­lio raf­fi­gu­ra Sil­vio Postu­mo, figlio di Enea e Lavi­nia (Aen. VI 760 e ss.).

L’ordine cosmi­co, attua­liz­za­to dall’azione non anta­go­ni­sta, ben­sì com­ple­men­ta­re, del­le due for­ze che dan­no ori­gi­ne al mon­do del­la mani­fe­sta­zio­ne, a Roma è sim­bo­leg­gia­to dall’alterno aprir­si e chiu­der­si del­le por­te del tem­pio di Gia­no: la guer­ra e la pace sono i due ele­men­ti insop­pri­mi­bi­li di quell’ordine. “Fu da Numa Pom­pi­lio sta­bi­li­to per leg­ge che la por­ta doves­se resta­re aper­ta sem­pre tran­ne il caso in cui non ci fos­se guer­ra in nes­su­na par­te” (Varr., L.L. V 34, 165). Il magi­stra­to più alto in cari­ca muni­to di impe­rium le apri­va con rito solen­ne “indos­san­do la tra­bea Qui­ri­na­le e cin­to alla manie­ra Gabi­na” (Verg., Aen. VII, 612). Quel­le por­te, che Vir­gi­lio dice “con­sa­cra­te a Mar­te”, furo­no dal tem­po di Numa a quel­lo di Augu­sto, chiu­se solo tre volte. 

Nel­la Roma cri­­stia­­no-biza­n­­ti­­na del­la metà del VI sec. d.C. alcu­ne per­so­ne rima­ste sco­no­sciu­te men­tre la cit­tà era cin­ta d’assedio dai Goti di Todia scar­di­na­ro­no not­te­tem­po le por­te del tem­pio, anco­ra intat­to per dare modo al Dio di mani­fe­star­si (Pro­cop., B. Got, I, 21), ma una simi­le aper­tu­ra irri­tua­le por­tò all’inevitabile scon­fit­ta.

“MARS, VIGILA!”


Plu­tar­co (Rom, 29, 1) ripor­ta che nel sacra­rium Mar­tis all’interno del­la Regia si tro­va­va una “lan­cia con­sa­cra­ta chia­ma­ta Mar­te”. La lan­cia, come è evi­den­te, rap­pre­sen­ta­va la “poten­za” di Mar­te. Si pre­an­nun­cia­va­no tem­pi peri­co­lo­si se la lan­cia del­la Regia si muo­ve­va da sola (hastae Mar­tis in Regia spon­te sua motae sunt, ripor­ta­va­no pun­ti­glio­sa­men­te i pon­te­fi­ci). Inve­ce ci si atten­de­va un’evenienza bel­li­ca favo­re­vo­le dopo il rito pro­pi­zia­to­rio com­piu­to dal gene­ra­le in pro­cin­to di par­ti­re per la guer­ra, quan­do, entra­to nel sacra­rio del dio, ave­va agi­ta­to g1i scu­di sacri dei Salii (Anci­lia) appe­si al muro e la sua lan­cia, dicen­do: Mars vigi­la!

Tale richia­mo equi­va­le esat­ta­men­te a quel­lo che le vesta­li rivol­ge­va­no al Rex affin­ché veglias­se in armi sul foco­la­re del­la cit­tà: Vigi­la­sne, Rex? Vigila!

E, come il Rex, Mar­te veglia­va sul­le sor­ti del­la cit­tà e in una sola straor­di­na­ria occa­sio­ne inter­ven­ne in pri­ma per­so­na a dife­sa dei suoi cit­ta­di­ni. Avven­ne nel 282 a.C., allor­ché com­par­ve in bat­ta­glia con­tro Bru­tii e Luca­ni sot­to for­ma di un gio­va­ne sol­da­to di ecce­zio­na­le sta­tu­ra e valo­re, poi scom­par­so all’improvviso (Val. Max. I, 86). La pro­va? Il casco dal dupli­ce pen­nac­chio che orna­va il suo capo. Vir­gi­lio (Aen VI, 779) così raf­fi­gu­ra Romo­lo, pro­prio in quan­to figlio di Mar­te. Esi­ste un uni­co ante­ce­den­te di un diret­to inter­ven­to divi­no in un cam­po di bat­ta­glia: lo scon­tro san­gui­no­so del Lago Regil­lo (499 a.C.), in cui i divi­ni gemel­li, Casto­re e Pol­lu­ce, inter­ven­ne­ro a favo­re dei Roma­ni con­tro i Lati­ni di Otta­vio Mamilio.

A ricor­do di que­sto pro­di­gio, ogni anno alle idi di Luglio, una sfi­la­ta di cava­lie­ri pro­ce­de in loro omag­gio dal tem­pio di Ono­re e da quel­lo gemel­lo di Vir­tù sino al Cam­pi­do­glio.

IL GUERRIERO DELLE ORIGINI, OVVERO “BELLVM” COME “DVELLVM


Era la caval­le­ria che costi­tui­va il ner­bo del più anti­co eser­ci­to. Allo stes­so modo dei guer­rie­ri ome­ri­ci o dell’Arjuna del­la Bha­­ga­­vad-Gità, il cava­lie­re roma­no, cer­ta­men­te muni­to di car­ro, usci­va dal­le file e ini­zia­va sin­go­li com­bat­ti­men­ti col nemi­co. Egli con­du­ce­va in bat­ta­glia due caval­li, così da aver­ne pron­to uno fre­sco e in gra­do di soste­ne­re un nuo­vo attac­co dopo aver eli­mi­na­to un pri­mo avversario.

Que­sto tipo di com­bat­ti­men­to rima­se in uso per mol­to tem­po, in pie­na epo­ca sto­ri­ca, anche quan­do la tat­ti­ca pri­mi­ti­va era sta­ta abban­do­na­ta. Per­ché quan­do Mar­te si sca­te­na sul cam­po di bat­ta­glia può esse­re cie­co, col­pi­sce e mas­sa­cra, sen­za fare distin­zio­ni, in pre­da al furor bel­li­co, che può sfre­nar­si nei riti di ini­zia­zio­ne di gio­va­ni gue­r­­rie­­ri-lupo (i Luper­ci) od esse­re inca­na­la­to al ser­vi­zio del­la cit­tà (come fan­no i disci­pli­na­ti Salii). Pro­prio nel duel­lo il furor, “l’ideale sel­vag­gio e il gran­de stru­men­to dei guer­rie­ri ita­li­ci del­la pre­i­sto­ria” (G. Dumé­zil) tro­va­va la sua più signi­fi­ca­ti­va manifestazione.

L’origine stes­sa del­la paro­la bel­lum si face­va deri­va­re: da duel­lum (Varr. L.L. V, 73; VII, 49), cimen­to indi­vi­dua­le par­ti­co­lar­men­te riser­va­to al re ed ai capi, e in cui risie­de­va l’essenza del­lo spi­ri­to guer­rie­ro lati­no. Il re guer­rie­ro per eccel­len­za, Tul­lo Osti­lio, “esal­ta­va la bel­lez­za del duel­lo, che due coman­dan­ti com­bat­to­no per con­qui­sta­re la supre­ma­zia e la poten­za” (Dion. III 12, 2).

Il pri­mo sce­na­rio guer­rie­ro di Roma vede­va Romo­lo impe­gna­to in un duel­lo indi­vi­dua­le con Aro­ne, re di Ceni­na. Allo stes­so modo si scon­tra­no in duel­lo Bru­to con­tro Arun­te Tar­qui­nio, per­ché “allo­ra era moti­vo di ono­re per i capi ini­zia­re per­so­nal­men­te la bat­ta­glia” (Liv. II 6, 8) ed il magi­ster equi­tum Tito Ebu­zio con il dit­ta­to­re tuscu­la­no Otta­vio Mami­lio, Cor­ne­lio Cos­so con­tro il re di Veio Tolum­nio (428 a.C.). In epo­ca più recen­te si bat­te­ran­no L. Fabio (391 a.C.), Tito Man­lio Tor­qua­to (364 a.C.), Vale­rio Cor­vi­no (309 a.C.), T. Man­lio figlio di Tor­qua­to (340 a.C.), Mar­cel­lo con­tro il duce degl’Insubri>i Vido­ma­ro (212 a.C.), Clau­dio Asel­lo (215 a.C.) e Publio Sci­pio­ne Emi­lia­no (151 a.C.).

Il con­so­le del 202 a.C., M. Ser­vi­lio Pulex Gemi­no, si van­ta in un discor­so d’aver soste­nu­to ven­ti­tré sin­go­la­ri ten­zo­ni in segui­to a sfi­de e nel­le mone­te del­la gens Ser­vi­lia è rap­pre­sen­ta­to in atto di cor­re­re a caval­lo con la lan­cia in resta con­tro il nemi­co. Romo­lo, Cor­ne­lio Cos­so e Mar­cel­lo saran­no gli uni­ci, in tut­ta la sto­ria di Roma, ad ave­re il pri­vi­le­gio di offri­re, in vir­tù del­la loro impre­sa, le “spo­glie opi­me” all’arcaica Tria­de Capi­to­li­na, cioè quel­le spo­lia quae dux popu­li Roma­ni duci hostium detra­xit.

LE FESTE ROMANE DELLA GUERRA E IL “BELLUM IUSTUM


L’anno mili­ta­re pro­ce­den­do da Mar­zo a Otto­bre, già il 27 feb­bra­io (Equir­ria) si svol­go­no impor­tan­ti cor­se di caval­li nel cir­co in ono­re di Mar­te (che ha pro­prie feriae due gior­ni dopo), nuo­va­men­te ripe­tu­te il 14 del mese successivo.

Un Ago­nium Mar­tia­le, cioè l’offerta di un mon­to­ne al Dio il gior­no 17, pre­ce­de la ceri­mo­nia di pro­du­zio­ne del­le del­le armi del 19 (Quin­qua­trus) e la con­sa­cra­zio­ne del­le trom­be di guer­ra del 23 (Tubi­lu­strium): ceri­mo­nia, quest’ultima, ripe­tu­ta il 23 mag­gio, ma que­sta vol­ta sot­to la tute­la di Vulcano.

Ma la guer­ra neces­sa­ria­men­te reca con sé qual­co­sa di “sacri­le­go”, per­ché l’uso immo­de­ra­to del­la vio­len­za rischia di pro­vo­ca­re l’ira degli Dèi cele­sti. Si trat­ta, dun­que, non solo di “fare la guer­ra”, ma di con­dur­la nell’alveo del­le rego­le, inse­ren­do­la nel­la sfe­ra del fas. A ciò avreb­be prov­ve­du­to, in pri­mo luo­go, il dirit­to (lo ius fetia­le e quel­lo pon­ti­fì­cum) e poi oppor­tu­ne ceri­mo­nie di lustra­zio­ne al ter­mi­ne del­le cam­pa­gne militari.

Innan­zi­tut­to, ai cit­ta­di­ni era con­sen­ti­to com­bat­te­re solo in quan­to mili­tes e, per que­sto, essi era­no vin­co­la­ti da un giu­ra­men­to solen­ne (sacra­men­tum mili­tiae) che li lega­va al pro­prio coman­dan­te e quin­di alla sfe­ra del sacro di cui era supre­mo tuto­re Iup­pi­ter. Solo in que­sto modo il miles che ucci­de, in con­di­zio­ni di iustum bel­lum, non è un omi­ci­da. I Sacer­do­tes Fetia­les avreb­be­ro deter­mi­na­to le varie con­di­zio­ni per cui un bel­lum si sareb­be potu­to con­si­de­ra­re iustum, cioè tale da poter­si intra­pren­de­re in manie­ra legit­ti­ma. I requi­si­ti for­ma­li e sostan­zia­li del bel­lum iustum deri­va­va­no dal­la esat­ta osser­van­za dei riti e del­le pro­ce­du­re del­lo ius Fetia­le e in moti­va­zio­ni vali­da­men­te deter­mi­na­bi­li e rico­no­sci­bi­li come tali in manie­ra ogget­ti­va, sia nei con­fron­ti degli dèi che degli uomi­ni. Il prin­ci­pio illa iniu­sta bel­la sunt, quae sunt sine cau­sa suscep­ta (Cic., De re publ. 3, 35) fre­na l’arbitrio e la cupi­di­gia del popo­lo roma­no e ne assi­cu­ra la legit­ti­ma­zio­ne reli­gio­sa dell’impe­rium universale.

In otto­bre, al ter­mi­ne del­la sta­gio­ne guer­rie­ra, già il pri­mo del mese un pub­bli­co sacri­fi­cio vie­ne offer­to al Tigil­lum Soro­rium, uno stra­no pas­sag­gio (ianus) pres­so le are di Gia­no Curia­zio e di Giu­no­ne Sorel­la, a ricor­do dell’espiazione del gio­va­ne Ora­zio che, ancor ebbro di san­gue e furor mar­zia­le, ave­va mas­sa­cra­to la pro­pria sorel­la dopo aver ucci­so in sin­go­la­re ten­zo­ne i tre Curia­zi. E se alle Idi un caval­lo pos­sen­te, il “caval­lo d’Ottobre”, era sacri­fi­ca­to al dio del­la guer­ra dal suo Fla­mi­ne, gli eser­ci­ti tor­na­ti in Cit­tà lor­di del san­gue pro­prio e dei nemi­ci avreb­be­ro lustra­to, cioè puri­fi­ca­to con rami di allo­ro se stes­si e le armi, duran­te la ceri­mo­nia del 19 (Armi­lu­strium) al Lau­re­tum sul mon­te Aventino.

La ceri­mo­nia del Tigil­lum, di cui la gens Hora­tia fu depo­si­ta­ria sin­ché esi­stet­te, e le altre mostra­zio­ni di que­sto mese, segna­va­no allo­ra la fine del­la sta­gio­ne mili­ta­re. I mili­tes, i guer­rie­ri domi­na­ti dal furor di Mar­te sca­te­na­to, tor­na­va­no Qui­ri­tes, cioè cit­ta­di­ni in pie­no pos­ses­so dei dirit­ti civi­li e socia­li: dun­que sot­to la tute­la di Qui­ri­no, che è “il Mar­te che pre­sie­de la pace”. Dal momen­to che quest’ultima – non ci stan­che­re­mo di ripe­ter­lo – risie­de nell’accordo armo­nio­so tra uomi­ni e dèi: la pax deo­rum.

IL CULTO DELLE “AQUILE


In quel pun­to dell’accampamento mili­ta­re chia­ma­to Prin­ci­pia si eri­ge­va il Taber­na­cu­lum. La ten­da ove si custo­di­va­no le inse­gne, le imma­gi­ni degli Dèi e, in epo­ca impe­ria­le, quel­le dei prin­ci­pi regnan­ti. Davan­ti a quel­la ten­da si tro­va­va l’ara sacri­fi­ca­le su cui appo­si­ti sacer­do­ti e i loro assi­sten­ti, dopo la pre­sa degli auspi­ci, effet­tua­va­no, su ordi­ne del coman­dan­te, atti rituali.

Se nei castra il miles pote­va ono­ra­re il genius loci, quel­lo del­la stes­sa legio­ne ed anche – nel caso di un cam­po stan­zia­le – i pro­pri Lari, un cul­to del tut­to par­ti­co­la­re e pret­ta­men­te mili­ta­re era quel­lo rivol­to alle inse­gne e spe­cial­men­te all’Aqui­la, inse­gna prin­ci­pa­le del­la legio­ne e a cui si tri­bu­ta­va­no gran­di ono­ri in caso di vit­to­ria e che era pro­tet­ta a costo del­la vita in caso di scon­fit­ta. Le trup­pe roma­ne in tem­pi remo­ti por­ta­va­no mol­ti ani­ma­li sul­le loro inse­gne; si tro­va­no anche lupi, caval­li, cin­ghia­li e mino­tau­ri. Sarà Caio Mario ad ele­va­re l’aquila, che già da qual­che anno era pri­vi­le­gia­ta ad uni­ca inse­gna obbli­ga­to­ria. Da quel momen­to le aqui­le furo­no inter­pre­ta­te qua­li poten­ze divi­ne pro­tet­tri­ci del­le legio­ni; a par­te il cul­to loro tri­bu­ta­to, l’anniversario del­la con­se­gna al repar­to era festeg­gia­to come gior­no di fon­da­zio­ne del­la legio­ne stessa.

L’aquila, ser­ran­te fra gli arti­gli i ful­mi­ni di Gio­ve e rap­pre­sen­ta­ta spes­so come sul pun­to di spic­ca­re il volo, pro­ce­de­va sem­pre davan­ti all’esercito; se anda­va per­du­ta, la legio­ne stes­sa era annien­ta­ta. Il signi­fer (aqui­li­fer, nel caso dell’aquila), il por­ta­to­re d’insegna del­la legio­ne, reca­va sul­le spal­le una pel­le di lupo, usan­do­ne il teschio feri­no come copri­ca­po; la pel­le si allac­cia­va davan­ti alla gola e sul ven­tre con le zam­pe. Era, que­sto sin­go­la­re vestia­rio atto ad incu­te­re timo­re al nemi­co, il relit­to sto­ri­co di quel­la tra­di­zio­ne guer­rie­ra anti­chis­si­ma che si è cer­ca­to di deli­nea­re all’inizio del nostro discorso.

Sul signi­fi­ca­to dell’aqui­la e la respon­sa­bi­li­tà dell’aqui­li­fer, è illu­mi­nan­te il seguen­te reso­con­to di Caio Giu­lio Cesa­re (Bell. Gall. IV, 25), allor­ché nar­ra del­le dif­fi­col­tà con­nes­se allo sbar­co in Bri­tan­nia di fron­te alle bian­che sco­glie­re di Dover: “ma poi­ché i nostri sol­da­ti esi­ta­va­no soprat­tut­to a cau­sa del­la pro­fon­di­tà del mare, l’aquilifero del­la X legio­ne, invo­ca­ti gli Dèi per­ché pro­pi­zio fos­se il suo gesto per la sua legio­ne, “sal­ta­te giù” gri­dò “o com­mi­li­to­ni, se non vole­te con­se­gna­re l’aquila ai nemi­ci. Io, alme­no, farò il mio dove­re di fron­te alla repub­bli­ca e al coman­dan­te”. Ciò det­to a gran voce, si get­tò giù dal­la nave e si mos­se con l’aquila ver­so i nemi­ci. Allo­ra i nostri, inco­rag­gia­ti­si a vicen­da, per non mac­chiar­si di un’onta cosi gra­ve, tut­ti sal­ta­ro­no dal­le navi. E come i sol­da­ti ch’erano sul­le navi vici­ne li vide­ro, segui­to­ne l’esempio si avvi­ci­na­ro­no ai nemi­ci”.

Anco­ra le aqui­lae sono al cen­tro di un epi­so­dio signi­fi­ca­ti­vo veri­fi­ca­to­si il 10 ago­sto del 70 d.C. I Roma­ni han­no appe­na con­qui­sta­to il tem­pio di Geru­sa­lem­me, anda­to distrut­to in un rovi­no­so incen­dio che ben poco ha rispar­mia­to. La sera stes­sa i sol­da­ti accla­ma­no Tito come Impe­ra­tor e offro­no sacri­fi­ci alle aqui­lae nel cor­ti­le ester­no dell’edificio (Svet., Titus 5, 2; Jos. Flav., Bell. Jvd. 6, 316; Oro­sio 7, 9). Ulti­mo atto di una dis­sa­cra­zio­ne che vie­ne rim­pian­ta dai discen­den­ti dei Giu­dei da qua­si due­mi­la anni? Non anco­ra: per­ché pro­prio qui Adria­no eri­ge­rà il tem­pio di Gio­ve del­la nuo­va Aelia Capi­to­li­na

Anco­ra nel­la tar­da Noti­tia Digni­ta­tum (V sec. d.C), nel­le inse­gne degli Iovia­ni e degli Her­cu­lia­ni iunio­res com­pa­ri­rà l’aquila, non disgiun­ta dal sim­bo­lo sola­re, com­pren­si­bi­le, dal momen­to ch’essa è un ani­ma­le sacro al Dio del­la luce per eccel­len­za e il con­tras­se­gno del­la rega­li­tà. Costan­ti­no avreb­be ten­ta­to di sosti­tuir­vi il mono­gram­ma cri­sti­co, ma – pare di capi­re – con scar­so suc­ces­so, soprat­tut­to dopo la rifor­ma elio­cen­tri­ca di Giu­lia­no.

UN “EXEMPLUM VIRTUTIS


Nel­la legio­ne roma­na di epo­ca sto­ri­ca il furor del­le anti­che schie­re indoeu­ro­pee, quel­le di Romo­lo e Tul­lo Osti­lio, è un ricor­do di tem­pi qua­si miti­ci e rima­ne cir­co­scrit­to in ristret­ti ambi­ti ritua­li. Pur sem­pre sot­to il segno di Mar­te, al furor sono sot­ten­tra­te la disci­pli­na e la vir­tus, di pari pas­so con l’estensione dell’idea di res publi­ca come ordi­na­men­to reli­gio­so civi­le e mili­ta­re in cui può tro­va­re con­ci­lia­zio­ne ogni contraddizione.

Duran­te l’impero diver­rà un luo­go comu­ne con­trap­por­re il furor bel­li e la fero­cia dei bar­ba­ri all’ardore disci­pli­na­to dei legio­na­ri roma­ni. Ma sarà la vir­tus ad impor­si gra­da­ta­men­te, men­tre il furor si esau­ri­rà da sé per il suo stes­so eccesso.

Agli albo­ri del­la repub­bli­ca, al tem­po di L. Sici­nio Den­ta­to, che alcu­ni dico­no fos­se il pri­mo, semi­leg­gen­da­rio, tri­bu­no del­la ple­be, vir­tus e furor for­se si mischia­va­no in giu­sto equi­li­brio. E con que­sto exem­plum di valo­re dell’antico tri­bu­no, degno di memo­ria, dice Gel­lio (II, 11), per le sue ardue impre­se, ci pia­ce con­clu­de­re que­sto capi­to­lo che al “Popo­lo di Mar­te” abbia­mo volu­to dedicare:

È scrit­to nei libri degli Anna­li che L. Sici­nio Den­ta­to, il qua­le fu tri­bu­no del­la ple­be sot­to il con­so­la­to di spu­rio Tar­peio e Aulo Ater­nio, fu un guer­rie­ro valo­ro­so più di quan­to si pos­sa cre­de­re e che gli fu dato un sopran­no­me a cau­sa del suo straor­di­na­rio valo­re e fu chia­ma­to l’Achille Roma­no. Si dice che egli com­bat­té con­tro il nemi­co cen­to­ven­ti bat­ta­glie, non ripor­tò nes­su­na cica­tri­ce nel dor­so ma qua­ran­ta­cin­que davan­ti, che rice­vet­te in dono otto coro­ne d’oro, una “ossi­dio­na­le”, tre “mura­li”, quat­tor­di­ci “civi­che”, ottan­ta­tré col­la­ne, più di cen­to­ses­san­ta brac­cia­let­ti, diciot­to aste; e così pure rice­vet­te in dono fale­re per ven­ti­cin­que vol­te; ebbe nume­ro­se spo­glie mili­ta­ri e fra que­ste parec­chie “di sfi­da”; cele­brò nove trion­fi al segui­to dei suoi coman­dan­ti”.